venerdì 28 febbraio 2014

Questo condominio non è una pensione.

Questo condominio non è una pensione.

27/02/2014
Avv. Leonarda Colucci


(Tribunale di Roma sentenza n.781/2014)

L'appartamento condominiale non può essere adibito ad uso pensione. I responsabili, di tale violazione, sono la locatrice, che non ha fatto rispettare il regolamento, quanto il conduttore.

Il fatto. Con atto di citazione un condominio di Roma ha citato la società conduttrice di un appartamento e la proprietaria (locatrice) dello stesso, poiché tale immobile era stato adibito ad “ uso pensione ai turisti” contravvenendo a quanto sancito dall'articolo 20 del Regolamento condominiale. Tale clausola, infatti, vietava ai proprietari degli immobili ricadenti nello stabile condominiale di adibire le unità ad attività che potevano contrastare con l'igiene, la tranquillità, ed il decoro del fabbricato. A causa dell'utilizzo ad uso pensione dell' appartamento locato in questione nello stabile condominiale vi era un continuo via vai di persone che comprometteva seriamente la tranquillità dell'intero stabile, pertanto il Condominio tenendo conto del mancato rispetto della clausola regolamentare ha deciso di chiamare in giudizio la società conduttrice dell'immobile e la locataria per ottenere una sentenza che imponga la cessazione dell'attività per uso turistico nell'appartamento in questione.

Citati in giudizio i convenuti si opponevano alla richieste del Condominio sostenendo:

Per la proprietaria (locatrice) la carenza di legittimazione passiva in quanto non era la titolare dell'attività svolta nel suo appartamento,
mentre la società conduttrice ribadiva l'inopponibilità nei suoi confronti del regolamento condominiale in quanto non condomina. Nel merito i convenuti puntualizzavano che l'attività svolta non era assimilabile alla pensione, e che i divieti regolamentari non potevano essere soggetti ad interpretazione analogica rilevando che l'attività svolta non poteva differire da una semplice locazione anche se ogni singolo soggiorno non superava i tre mesi.
La questione di merito. Il Giudice unico della quinta sezione del Tribunale di Roma affronta una questione preliminare e cioè quella della carenza di legittimazione passiva della locatrice proprietaria dell'immobile, ritenendo che quest'ultima dopo essere stata sollecitata dal condominio, lamentatosi del continuo via vai di persone nell'unità immobiliare in questione durante tutte le ore del giorno e della notte, avrebbe potuto chiedere alla società conduttrice il rispetto del divieto previsto dal regolamento condominiale accettato al momento della stipula del contratto di locazione. La locatrice, quindi, non avendo fatto ricorso alla risoluzione del contratto per inadempimento dell'obbligo previsto dal regolamento, deve essere considerata anch'essa responsabile e quindi, a parere della sentenza in commento, legittimata passiva nel giudizio instaurato. (Cass. 11383/2006). Allo stesso modo anche il conduttore assume gli stessi obblighi gravanti sul suo dante cause (locatrice) che legittimano quindi la sua chiamata in giudizio. (Cass.15756/2001, Cass. Civ. sez. III, 21 gennaio 2010, n.1003).

Il divieto imposto dalla norma condominiale deve essere rispettato da locatore e conduttore. Entrando nel merito della questione il Giudice Unico del Tribunale romano ha rilevato che, nel caso di specie, l'articolo 20 del regolamento condominiale vietava di adibire “a pensione ad uso turistico” gli appartamenti dello stabile al fine di tutelare la tranquillità della vita comune. Dunque dopo aver verificato che l'appartamento locato era stato destinato ad uso turistico, la questione di diritto si incentra sul significato da attribuire all'espressione “pensione ad uso turistico” attività, questa, chiaramente vietata dal regolamento condominiale.

Dall'esame del Regolamento condominiale il giudice ha potuto constatare che l'articolo 20 di detto regolamento prescrive che è vietato adibire gli appartamenti ad uso pensione, la norma inoltre in modo molto più generale vieta nel complesso ai proprietari delle singoli unità immobiliari di adibire gli appartamenti all'esercizio di attività che possano compromettere la tranquillità della vita in comune.

La sentenza aderendo ad un orientamento giurisprudenziale consolidato ha evidenziato che le limitazioni che il regolamento condominiale impone ai titolari degli immobili devono essere specifiche essendo invalide quelle pattuizioni regolamentari che limitino l'esercizio del diritto di proprietà in modo generico, pertanto le norme limitatrici delle facoltà che ogni proprietario può esercitare, finalizzate a perseguire una utilità generale, devono essere chiare e rigorose . (Cass. 3002/2010,Cass.16832/2009). Dopo queste premesse la sentenza si è soffermata sull'interpretazione della norma condominiale in questione, rilevando che nel caso di specie non è necessario fare ricorso ad una interpretazione estensiva e analogica della stessa poiché occorre stabilire esclusivamente qual è il bene tutelato dalla clausola e cioè la tranquillità dello stabile condominiale, che non può essere turbata dall'utilizzo per fine turistico di una delle unità immobiliari che comporta un continuo andirivieni di persone nello stabile in ogni ora del giorno e della notte. (in tema di interpretazione del regolamento condominiale vedasi: Cass. civ., 14.10.2011, n. 21318,; Cass. civ., 30.6.2011, n. 14460). Quindi la presunta genericità della norma condominiale posta a fondamento dei convenuti ( locatrice proprietaria dell'appartamento e società conduttrice titolare della pensione ad uso turistico) non è stata accolta dalla pronuncia che si commenta.

La sentenza in questione ha rilevato che la natura ricettiva propria della casa vacanze adibita ad uso pensione, uso impresso dalla società conduttrice all'unità immobiliare del condominio attore, lascia trapelare con chiarezza una palese violazione del divieto imposto dal regolamento condominiale. Fra l'altro il limitato arco temporale (tre mesi) entro il quale si succedono gli ospiti della pensione lascia intuire le difficoltà degli stessi di adeguarsi alle necessità di tranquillità che il regolamento condominiale cerca di salvaguardare.

La sentenza, infine, ha rilevato come nel caso di specie la clausola regolamentare fa riferimento ad un divieto genericamente rivolto a tutte le strutture ricettive caratterizzate dal rapido avvicendamento della clientela a nulla rilevando l'utilizzo nella stessa clausola del termine “pensione”: poiché anche tale utilizzo dell'immobile benché si riferisca ad un'attività di modeste dimensioni è pur sempre significativa di un'attività ricettiva che implica un costante avvicendamento della clientela.

In virtù di tali valutazioni il Giudice Unico del Tribunale di Roma ha condannato i convenuti (locatrice proprietaria dell'appartamento condominiale e società conduttrice )alla cessazione della locazione ad uso turistico.

Fonte: CondominioWeb.com

L'amministratore di condominio si “piange” le spese anticipate se le stesse non sono state espressamente ratificate dall'assemblea.

 L'amministratore di condominio si “piange” le spese anticipate se le stesse non sono state espressamente ratificate dall'assemblea.


27/02/2014
Avv. Leonarda Colucci


(Tribunale di Roma, Giudice Unico, della V sezione civile, sentenza n.788 del 2014)

Il carattere dell'indifferibilità ed urgenza delle spese anticipate dall'amministratore, di cui lo stesso chiede la restituzione, non possono essere giustificate neanche dal passaggio di consegne e dal disavanzo di gestione.

Il fatto. L' ex amministratore di un condominio romano ottiene un decreto ingiuntivo per la restituzione di somme pagate a titolo di anticipazioni e di somme per l'attività svolta prima della revoca del suo incarico, sostenendo che i compensi per la sua attività fossero stati approvati dall'assemblea. Il Condominio si oppone al decreto ingiuntivo. La pretesa dell'attore è stata dichiarata infondata da parte della sentenza in commento per le ragioni che saranno analizzate, dopo aver illustrato la disciplina dell'anticipo di somme da parte dell'amministratore condominiale.

Il rimborso di somme all'amministratore condominiale. In virtù del rapporto di mandato che si instaura fra condomini ed amministratore condominiale, ai sensi dell'articolo 1720 del codice civile, il mandante (condominio) è obbligato a restituire al mandatario (amministratore) le anticipazioni fatte nell'esecuzione del mandato. (DE TILLA M.,L'amministratore: nomina, revoca e attribuzioni, in Imm. & Dir., 2011, 6, 52). Per ottenere il rimborso delle somme anticipate dall'amministratore è necessario che il rendiconto approvato dimostri l'esistenza di un disavanzo colmato da parte dell'amministratore, quindi in assenza di un rendiconto approvato dall'assemblea l'amministratore non potrà ricorrere in giudizio per ottenere la restituzione delle somme anticipate.(Cass. Civ., 4 ottobre 2005, n. 19348). In merito agli oneri gravanti sull'amministratore condominiale la giurisprudenza di legittimità ha ulteriormente precisato che grava su questi non solo l'onere di dimostrare attraverso documenti gli esborsi sostenuti nell'interesse del condominio, ma anche quello di dimostrare le modalità di esecuzione del mandato per consentire all'assemblea dei condomini una valutazione in ordine al rispetto ad opera dell'attività svolta dei canoni della buona amministrazione. (Cass. Civ., 9 giugno 2010 n.13878 “ In tema di condominio negli edifici, poiché il credito per il recupero delle somme anticipate nell'interesse del condominio si fonda, ex articolo 1720 del c.c., sul contratto di mandato con rappresentanza che intercorre con i condomini, l'amministratore deve offrire la prova degli esborsi effettuati. L'obbligo di rendiconto può legittimamente dirsi adempiuto quando il mandatario abbia fornito la prova, attraverso i necessari documenti giustificativi, non soltanto della somma incassata e dell'entità e causale degli esborsi, ma anche di tutti gli elementi di fatto funzionali all'individuazione e al vaglio delle modalità di esecuzione dell'incarico.”).

Le valutazioni di merito. Nel caso di specie l'amministratore condominiale non ha ottenuto alcuna approvazione da parte dell'assemblea dell'attività svolta e degli esborsi sostenuti, tanto che lo stesso amministratore è stato revocato dal suo incarico. Fra l'altro tali circostanze si evincono chiaramente dalla documentazione prodotta dal condominio convenuto, poiché della ratifica degli esborsi effettuati dall'amministratore non esiste alcuna traccia nelle dichiarazioni confluenti nel verbale assembleare, né tantomeno dalla ricezione dei documenti da parte del nuovo amministratore che non può costituire ratifica dell'operato svolto dal suo predecessore.

Infatti a riprova delle irregolarità che avevano caratterizzato l'attività svolta dal precedente amministratore il nuovo amministratore condominiale ribadiva di aver presentato un esposto alla Guardia di Finanza, nel quale evidenziava innumerevoli irregolarità contabili e fiscali deducibili dalla documentazione ricevuta dal suo predecessore. Dalla documentazione in suo possesso, infatti, il nuovo amministratore condominiale aveva constatato che malgrado la revoca del mandato del precedente amministratore questi aveva effettuato dei prelievi dal conto del condominio motivando gli stessi con la causale “per rimborso anticipazioni” o “recupero competenze anticipate”. Dunque l'amministratore condominiale, nella causa di cui si discorre, sosteneva fatti non veri ribadendo che al momento dell'approvazione del conto consuntivo i condomini avevano ratificato le spese straordinarie da lui sostenute, al contrario è stato dimostrato che gli stessi condomini hanno chiesto ulteriori chiarimenti in ordine a tali spese anticipate dall'ex amministratore e dalla documentazione prodotta (verbali assembleari) non vi è traccia di alcuna volontà di ratificare le spese in questione ribadendo che la dettagliata descrizione delle stesse risultava dal verbale che attestava chiaramente la volontà dei condomini di non approvarle (“e cioè le spese per il compenso dell'amministratore, le spese per il passaggio di consegne al nuovo amministratore, e le spese per le due riunioni straordinarie”).

La sentenza in commento, inoltre, ha evidenziato come l'amministratore condominiale non può dedurre a sostegno della propria pretesa il fatto che le spese delle quali chiede la restituzione erano indifferibili ed urgenti, poiché l'indifferibilità e l'urgenza delle stesse non si evincono né dalla documentazione prodotta dall'amministratore né tantomeno dalle prove prodotte dal condominio convenuto.

Valutando i fatti appena menzionati la sentenza emessa dal Giudice del Tribunale di Roma ha giustamente evidenziato che il carattere dell'indifferibilità ed urgenza delle spese anticipate dall'amministratore di cui lo stesso chiede la restituzione, non possono essere giustificate neanche dal passaggio di consegne e dal disavanzo di gestione. Tale pronuncia infatti, rifacendosi anche ai principi giurisprudenziali, ha sottolineato come eventuali disavanzi di cassa o dichiarazioni di debiti e l'accettazione della documentazione da parte del nuovo amministratore condominiale non possono essere considerati come fatti dai quali evincere implicitamente il riconoscimento del debito da parte del condominio (Cass. Civ., sez. II, sent. 10153 del 9 maggio 2011, T. Bari, 12.11.2008,; T. Roma, 13.6.2005,; T. Milano, 23.6.2009, n. 8156).

Dunque considerato che l'amministratore, nel caso di specie, non aveva alcun titolo per effettuare i prelievi effettuati e che gli stessi non possono essere giustificati dalla supposta indifferibilità ed urgenza, lo stesso è stato condannato alla restituzione al condominio delle somme prelevate dal conto del condominio a titolo di rimborso per anticipazioni.

Fonte: CondominioWeb.com

L'amministratore non ha poteri di direzione dell'assemblea ed i condomini possono frenare le sue intemperanze

L'amministratore non ha poteri di direzione dell'assemblea ed i condomini possono frenare le sue intemperanze

27/02/2014
di Alessandro Gallucci


Quali sono gli effettivi poteri di conduzione dell'assemblea in capo all'amministratore di condominio?

Formalmente pochi, ma se l'amministratore è esperto, per necessità del condominio o per proprio interesse, può fare in modo di orientare l'esito di una discussione o, addirittura, di evitarlo.

Il caso che ci ha sottoposto un nostro lettore riguarda proprio quest'ultima eventualità.

“Un condomino presentatosi in ufficio per un preventivo per seguire tale condominio mi ha detto che vorrebbero revocare l'incarico all'attuale amministratore perché si è reso hanno scoperto degli accordi tra lui e l'impresa di pulizie, chiaramente a danno del condominio.

Fin qui cose che possono accadere, il problema è che nell'assemblea straordinaria in cui all'o.d.g. vi era la questione della risoluzione del contratto di pulizia delle scale, della conseguente sostituzione e della revoca dell'amministratore, l'amministratore stesso, dopo aver sentito la discussione tra i condomini, invece di mettere ai voti l'o.d.g. ha fatto verbalizzare al presidente che abbandonava l'assemblea perché ripetutamente attaccato da alcuni condomini. Il presidente (un condomino) ha firmato il verbale.

Mi chiedo cosa possa io fare visto che non sono ancora nominato, se consigliare richiesta di nuova assemblea straordinaria con revoca amministratore al primo punto all'ordine del giorno, sperando che magari non si presenti il collega in assemblea. Sinceramente da un punto di vista legale credo che rischi molto il collega per aver chiuso l'assemblea in questo modo, mi conferma?”

Un racconto non è un fatto ma una sua rappresentazione. La diamo per buona visto che dobbiamo scrivere un articolo e non decidere una causa.

Sulla base di quello che l'amministratore, nostro lettore, ci dice, però, non si può non arrivare a questa conclusione: l'amministratore che ha agito nel modo descritto sicuramente può essere revocato in qualunque momento in assemblea o, se l'assise non vi riesce, anche con ricorso all'Autorità Giudiziaria per gravi irregolarità nella gestione. Se dal fatto, poi, è derivato un danno, l'amministratore può essere anche soggetto ad una causa risarcitoria.

Ciò che, però, non può accadere è che un presidente di assemblea si faccia dettare il verbale e lo sottoscriva, senza, una volta che l'amministratore contestato ha abbandonato la riunione, aver provveduto a far votare i condomini.

Sebbene la Cassazione abbia concluso diversamente (cfr. Cass. 12 marzo 2003 n. 3596), lo scrivente ritiene che la presenza in assemblea dell'amministratore condominiale non è obbligatoria, anzi in alcuni casi, vedasi proprio la revoca, può essere utile non allontanamento dell'amministratore stesso per consentire una discussione quanto più libera e serena possibile.

In poche parole: se nel caso sottopostoci dal nostro lettore sicuramente l'amministratore ha agito in malo modo, è altrettanto vero che i condomini, in primis il presidente dell'assemblea, avrebbero potuto proseguire nello svolgimento della riunione arrivando, se i numeri lo consentivano, ad una revoca dell'amministratore stesso.

Fonte: CondominioWeb.com

È arrivato il “napoletano” . Condannati i vicini di casa.

È arrivato il “napoletano” . Condannati i vicini di casa.


26/02/2014
di Ivan Meo


Insulto combinato: parolacce e tarantella. Appartenere ad una specifica regione d'Italia, può essere un elemento di discriminazione? Sì. E' questa la triste verità che dobbiamo commentare alla luce di un recente intervento della Corte di Cassazione, che condanno una coppia di coniugi che aveva offeso i propri vicini per il solo fatto di essere nati al Sud. Decisiva, ai fini delle condanna, è stata ricostruzione dell'episodio: un uomo rientra a casa, poi si ferma a parlare con un vicino, ma, a sorpresa, diviene bersaglio di un insulto con la seguente frase: “ecco che è arrivato il napoletano che puzza di m...”». Ma non basta, si va oltre. Ad aumentare la dose di sdegno interviene il marito, il quale, con un fare caricaturale, inizia a ballare la tarantella (ballo tipicamente di origine napoletana).

Offesa la dignità. Esito scontato, ci verrebbe da dire. Insulti a sfondo razziale, offesa all'onere della persona. Il Giudice di pace, sanziona I due coniugi, complessive 900,00 euro. Ma secondo coppia rea di aver insultato il loro vicino, manca l'offensività nelle parole rivolte a un vicino di casa. Obiezione, ovviamente, respinta dalla Corte di Cassazione che rigetta il ricorso condannando i coniugi al pagamento delle spese del procedimento.

L'ingiuria razzista “costa” di più. Più “grosse” sono le parole e più “costano” care le sanzioni. Quindi ai condomini sarà più conveniente moderare i termini, visto che questa volta a farne le “spese” è stato un residente di un paese nei pressi del lago Maggiore che si è visto infliggere dal tribunale di Varese una ammenda di complessive tremila euro tra risarcimento equitativo e spese processuali. La miccia è una banale questione di parcheggio che fa emergere le frizioni già preesistenti con la famiglia di origine meridionale che abitano al piano terra. Le frasi che “volano”, di fronte anche a persone non residenti nel condominio, sono di questo tenore: “ solo dei terroni possono parcheggiare in quel modo…siete una categoria di m...”. Secondo il Giudice veronese, in queste offese è riconducibile anche l'aggravante dello sfondo razzista che scatta quando l'agente esprime in maniera inequivocabile un sentimento di “ grave pregiudizio e un giudizio di disvalore” nei confronti della categoria dei cittadini italiani del Meridione intesa come popolazione distinta per origini e tradizioni. Quindi l'offesa è “appesantita” dall'aggravante ex articolo 3 della legge 133/93 per avere commesso il fatto per «finalità di discriminazione o di odio etnico o razziale». Questo è quanto ha deciso dalla sentenza n. 67 del 29 marzo 2013, emessa dal Tribunale di Varese, che comunque non ha riconosciuto l'esimente della provocazione ex articolo 599, comma 2°, Cod. pen. in quanto non risulta accertata l'illegittimità del posteggio rispetto al veicolo “incriminato” né che il reo si sia rivolto alla polizia municipale per farlo rimuovere. Ma anche la Cassazione con sentenza n.42933 del 2011 aveva confermato la condanna, comprensiva anche di un risarcimento per i danni morali, nei confronti di condomino piemontese che durante una lite con il vicino di casa, pur sapendo che questi non era meridionale, gli aveva detto «lei per me può andare solo a fan..., terrone di merda».

Insomma offendere i propri vicini risulta, ancora oggi, una abitudine dura a morire.


(Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 24 febbraio 2014, n. 8732)

Fonte: CondominioWeb.com

Omessa convocazione all'assemblea condominiale, gli avvisi di giacenza possono tirare brutti scherzi

Omessa convocazione all'assemblea condominiale, gli avvisi di giacenza possono tirare brutti scherzi


26/02/2014
di Alessandro Gallucci


“Ho ricevuto l'avviso di convocazione a partecipare all'assemblea, tramite raccomandata, solamente un giorno prima della data fissata per la riunione”.

Oppure: “ho ricevuto l'avviso di convocazione, tramite raccomandata, solamente dopo lo svolgimento dell'assemblea, insomma non sono stato convocato!”

Queste affermazioni, che in un primo momento potrebbero far presagire la possibilità di agire per ottenere, anche abbastanza agevolmente, di invalidare la delibera per tardiva convocazione, nascondono delle insidie che, come si suole dire, rischiano di far giungere a diverse conclusioni.

A ricordarcelo è la Cassazione che è tornata ad occuparsi di rituale convocazione del condomino con la sentenza n. 1188 del 21 gennaio 2014.

Vediamo perché e, soprattutto, vediamo come il principio di diritto espresso dalla Cassazione, in relazione al momento di perfezionamento della comunicazione inviata a mezzo raccomandata, sia in grado di incidere anche sul calcolo dei tempi per l'impugnazione delle delibere invalide ai sensi dell'art. 1137 c.c.

Il caso è di quelli ricorrentissimi: un condomino impugna una deliberazione assemblea perché, afferma, ha ricevuto l'avviso di convocazione un giorno dopo lo svolgimento della riunione.

Tecnicamente si tratta di un avviso comunicato tardivamente ma, sul punto non vi sono dubbi, tale ipotesi è equiparabile all'omessa convocazione.

E' bene ricordare che tali vizi del deliberato – prima in ragione di una pronuncia in tal senso resa dalle Sezioni Unite della Cassazione (cfr. sent. n. 4806/05), e dopo l'entrata in vigore della legge n. 220/2012 (la così detta riforma del condominio) per espressa previsione legislativa (cfr. art. 66, terzo comma, disp. att. c.c.) – comportano l'annullabilità della delibera.

Per fare valere tale causa d'invalidità è necessario impugnare la delibera entro trenta giorni (cfr. art. 1137 c.c.) che decorrono:

a) per i presenti dissenzienti ed astenuti dal giorno della delibera;

b) per gli assenti non ritualmente convocati dal momento della comunicazione del verbale (cfr. art. 66, terzo comma, disp. att. c.c.).

A dire il vero la formulazione complessiva della norma in esame è ambigua e lascia un interrogativo: i vizi concernenti l'omessa e/o tardiva convocazione possono essere fatti valere solamente dagli assenti non ritualmente convocati, posto che la presenza sana tale vizio (cfr. Cass. n. 4531/2003)?

Torniamo alla sentenza n. 1188/14.

Nel caso di specie la Corte d'appello, accogliendo l'appello del condomino aveva ritenuto invalida la delibera perché l'avviso di convocazione era giunto al destinatario in ritardo: il tutto ruotava attorno alla data da prendere in considerazione per considerare “legalmente conosciuto” l'avviso di convocazione.

Con la locuzione “conoscenza legale” s'intende fare riferimento al momento in cui l'atto è giunto presso il domicilio del destinatario (o comunque la residenza un altro indirizzo indicato). Si chiama presunzione di conoscenza degli atti recettizi e la stabilisce l'art. 1335 c.c.

Se si tratta di raccomandate che non sono state consegnate per assenza del destinatario, la presunzione di conoscenza opera dal momento dell'immissione, da parte del postino, dell'avviso di giacenza del plico presso l'ufficio postale.

A dire il vero la Corte d'appello diceva che la presunzione di conoscenza non coincide con questa operazione materiale ma con l'annotazione della sua effettuazione presso dei registri postali.

La Cassazione ha ritenuto sbagliata questa presa di posizione ribadendo quanto già detto in altre circostanze, ossia che “le lettere raccomandate si presumono conosciute, nel caso di mancata consegna per assenza del destinatario e di altra persona abilitata a riceverla, dal momento del rilascio del relativo avviso di giacenza presso l'ufficio postale (Cass. 24 aprile 2003 n. 6527; Cass. 1 aprile 1997 n. 2847)” (Cass. n. 1188/2014).

In definitiva il condomino non avrebbe potuto impugnare perché era stato convocato ritualmente e tempestivamente.

Lo stesso principio, vale la pena evidenziarlo, è da ritenersi valido per la comunicazione del verbale. Ciò vuol dire che i termini per impugnare una deliberazione assemblea decorrono, per gli assenti se non v'è stata immediata consegna a mani, dal giorno in cui l'avviso di giacenza del plico presso l'ufficio postale è stato imbucato nella loro cassetta delle lettere.

Occhio, dunque, a far finta di non aver ricevuto nulla: “far riposare” la corrispondenza presso l'ufficio postale può costare caro!

Fonte: CondominioWeb.com

Niente indennità per perdita di avviamento se l'attività commerciale è irregolare

Niente indennità per perdita di avviamento se l'attività commerciale è irregolare

26/02/2014
di Alessandro Gallucci


Nel caso in cui, astrattamente, un conduttore di un immobile locato per uso diverso da quello abitativo abbia diritto a chiedere la così detta indennità per perdita di avviamento, per ottenerla è necessario che l'attività commerciale esercitata sia in possesso di tutte le autorizzazione richieste dalla legge.

L'onere di provare tale aspetto, infine, ricade sul conduttore richiedente il ristoro economico.

La Cassazione – con la sentenza n. 26225 del 23 novembre 2013 ribadendo, tra l'altro, un proprio consolidatissimo orientamento – è tornata a pronunciarsi sul tema dell'indennità dovuta al conduttore ai sensi dell'art. 34 della legge n. 392/78.

Locazioni commerciali

Si parla di locazioni commerciali ma, in verità facendo riferimento ai contratti conclusi per consentire l'esercizio dell'attività lavorativa in genere, la legge di riferimento, ossia la legge n. 392/78, parla più genericamente di locazione di immobili urbani ad uso diverso da quello di abitazione.

Un commerciante vuole prendere in locazione un locale? Si applica la legge n. 392/78.

Un albergatore vuole intraprendere la propria attività in centro città? Idem.

Norme di riferimento sono quelle contenute negli artt. 27 e seguenti della legge testé citata.

Il contratto ha una durata minima di sei anni, salvo per il caso delle locazioni per attività alberghiere (rispetto alle quali la durata minima è fissata in nove anni) e per quelle stagionali che possono avere anche durata inferiore.

L'intento del legislatore, nel disciplinare questo genere di locazioni (l'ammontare del canone è rimesso alla libera contrattazione delle parti), è stato, tra gli altri, anche quello di garantire la continuità nell'esercizio delle attività commerciali-artigianali-professionali nel rispetto dei diritti del proprietario dell'immobile adibito a tale uso.

Proprio in quest'ottica dev'essere inquadrato il diritto del conduttore a ricevere la così detta indennità per la perdita di avviamento.

Indennità per perdita di avviamento

L'art. 34 della legge n. 392/78 specifica che In caso di cessazione del rapporto di locazione per uso diverso da quello abitatyivo, che non sia dovuta a risoluzione per inadempimento o disdetta o recesso del conduttore o al fatto che lo stesso sia sottoposto ad una procedura concorsuale, l'inquilino ha diritto, per le attività indicate dall'articolo 27 (ossia commerciali e artiginali quelle professionali sono escluse ex art. 35, ecc.), ad una indennità pari a 18 mensilità dell'ultimo canone corrisposto. Per il caso di attività alberghiere l'indennità è pari a 21 mensilità.

L'indennità è maggiorata se lo stesso immobile viene adibito nell'anno successivo ad attività commerciali uguali o comunque simili.

Indennità e rispetto delle regole

È evidente che l'indennità per la perdita di avviamento serve a compensare il conduttore del valore aggiunto creato al luogo di esercizio del commercio nel caso in cui la rescissione del contratto non dipenda in alcun modo da lui.

In questo contesto, però, come si diceva in principio, tutto dev'essere il regola.

Secondo la Cassazione, infatti, La tutela dell'avviamento commerciale, apprestata dagli artt. 34 - 40 della legge 27 luglio 1978, n. 392, per gli immobili adibiti ad uso diverso dall'abitazione, utilizzati per un'attività commerciale comportante contatti diretti con il pubblico degli utenti e dei consumatori, non può essere riconosciuta al conduttore che eserciti quell'attività senza le prescritte autorizzazioni, poiché il presupposto della tutela risiede nella liceità dell'esercizio dell'attività medesima, in quanto si fornirebbe altrimenti protezione a situazioni abusive (frustrando l'applicazione di norme imperative che regolano le attività economiche) e lo stesso scopo premiale della disciplina posta a fondamento della predetta legge, che, quanto all'avviamento ed alla prelazione, consiste nella conservazione, anche nel pubblico interesse, delle imprese considerate (Cass. n. 7501/2007, conformi Cass. n.635/07, Cass. n. 10187/2005, Cass. n. 1235/2003; Cass. n. 12966/2000, Cass. n. 5265/1993, tra le tantissime) (Cass. 22 novembre 2013, n. 26225).

Fonte: CondominioWeb.com

giovedì 13 febbraio 2014

Spetta sempre a chi reclama la proprietà esclusiva di un bene condominiale l'onere di dimostrare di avere ragione

Spetta sempre a chi reclama la proprietà esclusiva di un bene condominiale l'onere di dimostrare di avere ragione

13/02/2014
di Alessandro Gallucci


In tema di condominio negli edifici, qualora uno dei condomini reclami la proprietà esclusiva di una parte dell’edificio, incombe su di esso l’onere di dimostrare la fondatezza delle proprie argomentazioni. Per farlo, l’unico modo, al di là dell’usucapione, è produrre un titolo che specifichi la giustezza delle sue pretese.
 
Non solo: per essere valido, quel titolo deve essere correttamente concatenato rispetto a quelli formati nel momento costitutivo del condominio. 
 
È bene ricordare che “il condominio sorge ipso iure et facto, e senza bisogno di apposite manifestazioni di volontà o altre esternazioni, nel momento in cui l'originario costruttore di un edificio diviso per piani o porzioni di piano, aliena a terzi la prima unità immobiliare suscettibile di utilizzazione autonoma e separata, perdendo, in quello stesso momento, la qualità di proprietario esclusivo delle pertinenze e delle cose e dei servizi comuni dell'edificio” (così Cass. 4 ottobre 2004, n. 19829).
 
Ciò vuol dire che la parte dell’edificio che il condomino ritiene di sua proprietà esclusiva debba essere stata tale:
 
fin dal momento della costituzione del condominio, e quindi ve ne deve essere traccia nel primo atto di cessione della prima unità immobiliare;
anche in un momento successivo purché ciò risulti da un atto scritto (e trascritto) che rechi il consenso di tutti gli altri condomini.

 
Se così non fosse, il bene reclamato – in quanto inserito nell’elenco di cui all’art. 1117 c.c. o comunque perché accessorio rispetto alle singole unità immobiliari (cfr. su tutte Cass. SS.UU. n. 7449/93) – deve continuare ad essere considerato di proprietà comune.
 
Tra condominialità e presunzione di condominialità.
A dire il vero in tante, tantissime sentenze, si parla di presunzione di condominialità. La locuzione, secondo le Sezioni Unite della Cassazione, è utilizzata in maniera impropria. In tal senso è stato affermato che “con le pronunce di questa Corte nelle quali è stato richiamato il concetto di presunzione, non si è inteso affermare che la prova della proprietà esclusiva delle cose comuni di cui all'art. 1117 cod. civ. possa essere fornita con ogni mezzo e non con il solo titolo cui la norma espressamente si riferisce, ma si sono volute escludere dallo stesso complesso delle cose comuni quelle parti che per le loro caratteristiche strutturali risultino destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari di un determinato edificio. In altri termini, ritenendosi in tali decisioni che "la destinazione particolare vince la presunzione legale di condominio alla stessa stregua di un titolo contrario", benché si sia richiamato erroneamente il concetto di presunzione, del tutto estraneo alla norma dell'art. 1117 civ., si è pero, enunciato anche il principio, indubbiamente corretto, secondo cui una cosa non può proprio rientrare nel novero di quelle comuni se serva per le sue caratteristiche strutturali soltanto all'uso e al godimento di una parte dell'immobile oggetto di un autonomo diritto di proprietà”(così Cass. SS.UU. 7 luglio 1993 n. 7449).
 
Onere della prova.
Tornando sull’argomento iniziale, in un caso cui la Cassazione ha dato recente soluzione, è stato ribadito il concetto di presunzione di condominialità (di cui deve ritenersi ancora oggi che sia fatto un uso improprio) per le cose, inserite nell’elenco di cui all’art. 1117 c.c. o comunque da ritenersi comuni per caratteristiche strutturali e funzionali, rispetto alle quali non si fornisce prova della proprietà esclusiva.
 
Prova che dev’essere fornita da chi reclama la proprietà. In tal senso è stato affermato che “grava su colui che intenda vincere la presunzione legale di comunione prevista dall'art. 1117 c.c. l’onere di fornire la prova della proprietà esclusiva dei beni che per ubicazione e struttura siano potenzialmente destinali all'uso comune” (Cass. 17 gennaio 2014 n. 874).

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FONTE : condominioweb.com

Realizzazione di un pergolato sul terrazzo dell'immobile proprietà esclusive. Quando può ritenersi abusivo?

Realizzazione di un pergolato sul terrazzo dell'immobile proprietà esclusive. Quando può ritenersi abusivo?

13/02/2014
Avv. Gian Luca Ballabio


(Cons. Stato, sez. V, sent. 27 gennaio 2014, n. 407)

Il caso in esame. Il ricorrente ha impugnato la sentenza del T.A.R. che aveva ritenuto legittimi l’ordine di demolizione degli interventi “di tamponatura e copertura tramite vetrate di un pergolato posto sul terrazzo dell’immobile di sua proprietà” poiché ritenutinon sanabili ai sensi della disposizione dell’art. 32 L. n. 47/85, in quanto “incompatibili con la tutela gravante sull’immobile, in quanto modificano in modo inaccettabile l’estetica e l’immagine dell’edificio vincolato”. 

Nozione di pergolato. In giurisprudenza è orientamento consolidato che "ai fini edilizi si intende per pergolato un manufatto avente natura ornamentale realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di fondamenta, che funge da sostegno per piante rampicanti, attraverso le quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni" (T.A.R. Lombardia - Brescia, sez. I , sent. 29 agosto 2012, n. 1481). Infatti, mentre il pergolato costituisce una struttura aperta sia nei lati esterni che nella parte superiore ed è destinato a creare ombra , la tettoia può essere utilizzata anche come riparo ed aumenta l’abitabilità dell’immobile (Cass. pen, sez. III, sent. 19 maggio 2008, n. 19973).

Conseguenze in tema di titoli abilitativi. La corretta individuazione di un’opera come pergolato è di fondamentale importanza per verificarne la legittimità secondo la normativa di settore. In particolare “la giurisprudenza è costante nel ritenere che non sia necessaria alcuna concessione edilizia allorché l’opera consista in una struttura precaria, facilmente rimovibile, non costituente trasformazione urbanistica del territori” (Cons. Stato, Sez. V, sent. 7 novembre 2005, n. 6193). 

Alla luce di tale principio è stato ritenuto legittimo “un pergolato costituito da una intelaiatura in legno che, come risulta dal verbale in atti, non è infissa né al pavimento né alla parete dell’immobile alla quale è semplicemente addossata, né risulta chiusa in alcun lato, nemmeno sulla copertura”. Ciò poiché l’opera  non“altera lo stato dei luoghi o l’aspetto esteriore dell’edificio con incidenza di carattere edilizio, ambientale, estetico o funzionale in quanto l’atto si limita ad affermare che il pergolato contrasterebbe con le distanze dai confini e dai fabbricati previste dal regolamento edilizio, fattispecie questa che non appare ipotizzabile, trattandosi di struttura aperta e senza creazione di volume” (Cons. Stato, cit.).

In caso, poi, di costruzioni abusive, è stato ritenuto che ai sensi della disposizione  dell’art. 32 della Legge n. 47/1985 “il rilascio della concessione in sanatoria per le opere edilizie abusive ricadenti su aree sottoposte a vincolo è subordinato al previo rilascio del parere favorevole dell’amministrazione o dell’organo preposto alla tutela del vincolo, parere che non ha carattere solo obbligatorio ma è vincolante per le determinazioni del Comune.

Il riferimento espresso all’atto vincolante, quindi, motiva adeguatamente il provvedimento comunale, soprattutto ove si consideri che il giudizio circa la compatibilità di costruzioni abusive con gli interessi alla tutela ambientale e paesaggistica spetta pienamente agli organi a ciò preposti.
Conseguentemente è “legittimo il provvedimento negatorio e sanzionatorio emanato dall’autorità comunale avverso costruzioni abusive, così motivato” (Cons. Stato, sez.. V, sent. 16 febbraio 2012, n. 749; Con. Stato, sez. VI, 24 settembre 1996, n. 1248).

La sentenza in commento. Nella recente pronuncia del Consiglio di Stato uno dei profili di censura, come osservato, è stato relativo alla circostanza che l’Amministrazione “avrebbe dichiarato con formula tautologica l’incompatibilità delle opere da condonare con il bene tutelato, per cui erroneamente il primo giudice non avrebbe censurato la determinazione assunta, benché priva di un puntuale ed adeguato supporto motivazionale”.

Il Collegio, però, ha sottolineato come la “motivazione assunta a sostegno del diniego (consistente nell’inaccettabile modifica all’estetica ed all’immagine dell’edificio vincolato), anche se formulata in modo invero sintetico, risulti comunque sufficiente, nella specie, a dare ragione della determinazione assunta”.

Infatti, secondo  giudice di appello si desumeva dalla documentazione in atti come “l’abuso edilizio per cui è causa consiste in una nuova volumetria abitativa di significativa consistenza, ubicata in pieno centro storico, realizzata in elevazione su una terrazza preesistente e caratterizzata da materiali non di pregio. 

Non v’è dubbio alcuno, quindi, come detto intervento abusivo si ponga in oggettiva disarmonia rispetto all’immobile tutelato, come rilevato dall’Amministrazione.
In altri termini, attesa la natura, a consistenza, l’ubicazione e le caratteristiche del manufatto oggetto di condono, non era ragionevolmente necessario che l’Amministrazione si profondesse in ampie argomentazioni per evidenziarne l’oggettiva incompatibilità con il bene oggetto di tutela, risultando all’uopo sufficiente la sintetica formula adoperata, ricognitiva di una situazione di fatto riscontrabile per tabulas”.

Conclusione. La realizzazione di un pergolato o la sua modifica possono essere fonte di abuso edilizio qualora comportino un aumento della volumetria o influiscano sull’aspetto estetico dell’immobile tutelato.

Per eliminare tale abuso l’Amministrazione può motivare la propria ordinanza di demolizione anche rimandando, qualora sia previsto, al provvedimento vincolante della Soprintendenza senza ulteriore ampie argomentazioni.

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Fonte : condominioweb.com

Danni da infiltrazioni: il condomino che intende chiedere il risarcimento del danno da infiltrazione non può fare esclusivo affidamento sulla CTU

Danni da infiltrazioni: il condomino che intende chiedere il risarcimento del danno da infiltrazione non può fare esclusivo affidamento sulla CTU

13/02/2014
di Alessandro Gallucci


Una sentenza della Corte di Cassazione sul finire del 2013, la n. 28669 del 27 dicembre 2013, ci consente di affrontare il tema dell’onere della prova e del valore, in questo contesto, della consulenza tecnica d’ufficio.
 
Il discorso ha validità generale ma, vista la sua frequente ricorrenza in condominio, ne parliamo con specifico riferimento al così detto danno da infiltrazioni.
 
Andiamo per gradi seguendo quest’ordine:
onere della prova;
onere della prova in materia di danni da infiltrazioni (ossia in danni da cose in custodia);
valore della CTU anche in relazione all’onere della prova.

 
Onere della prova.
Ai sensi dell’art. 2697 c.c. 
Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento.
 
Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda.
 
Se ritengo che Tizio ritiene che l’azione di Caio gli abbia causato un danno, per ottenere il risarcimento egli dovrà agire in giudizio e dimostrare:
 
che è esistita un’azione di Caio;
che essa è stata volontaria anche nelle intenzioni o quanto meno nel compimento (insomma dimostrare dolo e colpa);
che l’azione è legata al danno;
quantificare il danno.

 
Nei casi di responsabilità contrattuale l’onere della prova è attenuato in quanto ricade sul debitore l’onere di dimostrare che l’inadempimento che gli si contesta non dipende da lui (cfr. ad es. art. 1218 c.c.)
 
Anche in altre ipotesi di responsabilità extracontrattuale l’onere della prova è più leggero.
 
Uno di questi casi è quello rappresentato dai danni da cose in custodia (e quindi nei casi di danni da infiltrazione) ai sensi dell’art. 2051 c.c. che, per pacifica giurisprudenza, rappresentano un’ipotesi di responsabilità oggettiva (cfr., tra le tante, Cass. 20 maggio 2009 n. 11695).
 
In questo caso il danneggiato (si pensi al proprietario dell’appartamento che ha subito delle infiltrazioni) deve dimostrare:
 
il danno;
la relazione esistente tra la cosa da cui proviene il danno ed il danno medesimo (es. dimostrare che esso proviene dalla terrazza).

 
Il proprietario della cosa che ha causato il danno, invece, sarà gravato del difficile onere di dimostrare che il fatto è avvenuto per un caso fortuito, ossia a causa di un evento assolutamente imprevisto ed imprevedibile.
 
Si basi, però, sia il danneggiato che il custode devono essere in grado di provare i propri assunti senza potersi presentare in giudizio sperando che sia la consulenza tecnica d’ufficio, altrimenti detta CTU, “a fare il lavoro al loro posto”.
 
Ai sensi dell’art. 61 del codice di procedura civile, infatti:
 
Quando è necessario, il giudice può farsi assistere, per il compimento di singoli atti o per tutto il processo, da uno o piu' consulenti di particolare competenza tecnica.
 
La scelta dei consulenti tecnici deve essere normalmente fatta tra le persone iscritte in albi speciali formati a norma delle disposizioni di attuazione al presente codice.
 
Il consulente è un ausiliario del giudice e la consulenza lo strumento che “aiuta” il giudice a comprendere una materia in cui “non è molto ferrato”.
 
Per dirla con riguardo alle cause per danni da infiltrazione: il CTU aiuta il giudice a valutare se le prove fornite dalle parti circa causa del danno ed eventuali casi fortuiti siano tecnicamente valide.
 
Solo in casi eccezionali la CTU può arrivare a fornire prove che le parti non hanno presentato.
 
In tal senso nella sentenza n. 28669 del 2013, cui s’è accennato in precedenza, la Cassazione ha affermato che “la consulenza tecnica d'ufficio non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo essa la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze, onde non può essere utilizzata al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume.
 
Peraltro, è orientamento altrettanto costante quello secondo cui è consentito derogare al limite del divieto di indagini esplorative, quando l'accertamento di determinate situazioni di fatto possa effettuarsi soltanto con l'ausilio di speciali cognizioni tecniche, essendo, in tal caso, consentito al c.t.u. anche di acquisire ogni elemento necessario a rispondere ai quesiti, sebbene risultante da documenti non prodotti dalle parti, sempre che si tratti di fatti accessori e rientranti nell'ambito strettamente tecnico della consulenza, e non di fatti e situazioni che, essendo posti direttamente a fondamento della domanda o delle eccezioni delle parti, debbano necessariamente essere provati dalle stesse (Cass., sez. 3^, 14 febbraio 2006, n. 3191; sez. 2^, 15 aprile 2002, n. 5422;sez. 3^, 6 giugno 2003, n. 9060) (Cass. 27 dicembre 2013 n. 28669).

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Fonte : condominioweb.com